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Contenuto archiviato il 2023-04-03

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L’uccisione di giornalisti – preludio di una più ampia repressione politica

I ricercatori del progetto RATE, finanziato dall’UE, hanno analizzato più di un migliaio di casi di omicidi di giornalisti in tutto il mondo avvenuti tra il 2002 e il 2013. I risultati lanciano un forte monito sul fatto che la morte dei giornalisti rappresenta un pericoloso allontanamento dalle politiche sui diritti umani e un forte segnale di un crescendo di repressione politica.

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Una stampa indipendente rappresenta il fondamento della responsabilità democratica, dello stato di diritto e il punto di riferimento per la tutela dei diritti umani. Troppo spesso governi repressivi hanno preso di mira giornalisti il cui lavoro era considerato offensivo o contro il sistema, non solo mettendo a tacere le loro critiche, ma bloccando anche la libera circolazione delle informazioni. Solo nel 2015 è stata registrata l’uccisione di più di 70 giornalisti, gran parte dei quali impegnati su questioni politiche in paesi estremamente diversi tra loro, tra cui Ucraina, Turchia e Kenya. Una lunga scia di violenze Il team del progetto RATE (Repression and the Escalation of Conflict), i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista “Journal of Peace Research”, ha raccolto e analizzato una serie di dati relativi all’uccisione di più di 1 300 giornalisti e operatori multimediali di tutto il mondo, avvenute tra il 2002 e il 2013, al fine di individuare un possibile legame tangibile tra la violenza perpetrata contro la stampa e una più ampia repressione politica. Dai risultati è emerso che Siria e Iraq sono tra i paesi più pericolosi per i giornalisti, in quanto scenari di guerre civili e disordini politici per tutto il periodo oggetto di studio. In totale sono stati presi di mira 162 (Siria) e 287 (Iraq) giornalisti. Tuttavia, gli attacchi nei confronti dei giornalisti non avvengono sempre in paesi colpiti da guerre civili, in quanto tra il 2002 e il 2013 circa un terzo di tutti gli omicidi è avvenuto in realtà geografiche non coinvolte in conflitti. Solo tra il 2002 e il 2003 sono stati registrati omicidi di membri degli organi di stampa in oltre 80 paesi. Ciò vale soprattutto per il Messico, che è uno dei paesi più pericolosi al mondo per i rappresentanti della stampa. Brasile, Filippine, Indonesia, Nepal ed Egitto sono altri paesi in cui la violenza contro i giornalisti è estremamente radicata. In generale, numerosi paesi in cui sono stati compiuti omicidi di giornalisti non sono considerati regimi particolarmente brutali o repressivi. Si tratta di realtà in cui arresti per motivi politici, omicidi ed esecuzioni rappresentano episodi piuttosto diffusi che, tuttavia, non si estendono all’intera popolazione. Un segnale nefasto In uno scenario caratterizzato da cifre così allarmanti, i ricercatori sostengono che l’uccisione dei giornalisti rappresenta il preludio di una repressione politica sostenuta dallo Stato che va via via aggravandosi. L’omicidio di anche un solo giornalista costituisce generalmente un chiaro segnale di instabilità e di intensificazione delle tensioni, solitamente accompagnate da un comportamento invasivo e oppressivo da parte dei governi. Questo aspetto è messo in evidenza dal fatto che i giornalisti “stranieri” rappresentano solo raramente un bersaglio da colpire, diversamente da quanto accade per i professionisti locali, che sono pertanto più vulnerabili e si vedono costretti a pagare il prezzo di un regime di repressione. Dalla ricerca emerge inoltre che i responsabili delle uccisioni non vengono quasi mai identificati rimanendo pertanto impuniti. Nello specifico, l’analisi degli episodi di repressione contro la stampa rappresenta un metodo particolarmente utile per un gruppo “intermedio” di paesi che, sebbene non si presentino come solide democrazie liberali con una lunga tradizione di libertà di stampa, non possono essere classificati come regimi brutali e repressivi. Come puntualizzano i ricercatori, non ci si aspetterebbe che paesi quali l’Australia o la Norvegia ostacolino improvvisamente il lavoro degli organi di stampa, né tanto meno che un paese repressivo, come il Sudan o la Corea del Nord, adotti da un momento all’altro un atteggiamento di maggiore apertura facendosi garante della libertà di stampa. Tralasciando altri fattori, come ad esempio lo sviluppo economico e la democratizzazione, la violenza contro la stampa rappresenta un ottimo indizio per comprendere se questi paesi “intermedi” stiano o meno iniziando a fare un passo indietro relativamente al loro impegno sul piano della tutela dei diritti umani. In sostanza, come sostengono i ricercatori, è improbabile che un’economia solida debba fare i conti con i rischi legati all’uccisione di un giornalista. I paesi che, secondo gli esperti, ricadrebbero in questa categoria in cui la repressione della stampa rappresenta un importante segnale di avvertimento sono Perù, Sierra Leone, Malesia e Tanzania. Adottare misure appropriate Ciononostante, la situazione non è poi così nera se si considera che il monito lanciato da eventuali attacchi od omicidi di giornalisti in questo gruppo di paesi dovrebbe incoraggiare la comunità internazionale ad adottare misure appropriate in tempi ristretti. Il team di ricerca sostiene che le iniziative politiche potrebbero registrare il maggiore impatto sui paesi in cui dominano regimi moderatamente repressivi, in quanto gli Stati più oppressivi lasciano pochissimo margine di miglioramento. Il progetto RATE, che è stato condotto presso l’Università di Mannheim, in Germania, e che si concluderà nel gennaio 2019, ha ricevuto un finanziamento di circa 1,5 milioni di euro dall’UE. Per maggiori informazioni, consultare: Sito web del progetto

Paesi

Germania

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